Chiudere lo stabilimento siderurgico, recuperare i crediti vantati dalle aziende dell'indotto, conquistare un'idea di dignità. A dispetto di tutti: di uno Stato imbelle, di una politica da scuola dell'infanzia, di una multinazionale non più credibile. CosmoPolis indica la road map per affrancare definitivamente Taranto dal secolo breve. E, consentire al capoluogo jonico, di poter salire al volo sul treno che conduce ad una nuova modernità, dopo aver fatto la conoscenza del Covid
Fine di una storia. Game over. Tra Taranto e il siderurgico si è incuneata la semantica del non-detto. La prolissità afona – o il rumore bianco, con le sue frequenze assolutamente perfette, per dirla con il titolo di un intelligente libro di Don DeLillo. La logica impellente – e il principio di realtà – che cozza con le rivendicazioni senza senno hanno svelato il loro vero volto. Il vittimismo vacuo ha tracimato nell’idea soffocata - e soffocante - dell’assistenzialismo che lede la dignità altrui. Di un popolo intero. Di una comunità unità al proprio interno dal vincolo di cittadinanza. Attendere oltre non si può più. Va chiusa una pagina ormai ingiallita, consumata dall’incedere del tempo. Non ce ne vogliano gli imprenditori, i titolari delle aziende dell’indotto ex Ilva che questa mattina hanno protestato sotto la Prefettura. Recuperino i crediti che vantano con gli indiani (circa 30 milioni di euro), se ci riescono, e cambino strada in tutta fretta. Facciano altro. Quello che non è mai stato fatto da oltre trent’anni a questa parte. Diversifichino. Si riadattino. Dotino di una visione, al passo con i tempi, i propri processi produttivi. Escano fuori dalla logica mortificante, culturale prim’ancora che economico-aziendale, del subappalto. Dell’essere ospiti in casa propria. Vetusti perché, in buona sostanza, incapaci di saltare al volo sul treno che esibisce all'interno delle proprie carrozze la modernità. Con la siderurgia, con questi interlocutori rifilatici da uno Stato debole nei fondamentali e parecchio pasticcione, con una politica lacunosa, che ha smarrito l’etica dei grandi propositi e le suggestioni di una realtà non ordinaria da edificare, ci si va a schiantare dritti contro un muro. Chi scrive lo ripete da anni, ormai: chi volesse oggi vedere aumentare i propri bilanci, incrementare la redditività delle aziende guidate, dovrebbe chiudere all’istante qualsivoglia rapporto di lavoro con ArcelorMittal. Così come avrebbe dovuto farlo, ieri, per le stesse ragioni, con la famiglia Riva. Il Novecento, con la sua idea d’industria fordista, standardizzata, violentemente protesa a deturpare l’ambiente circostante, è alle nostre spalle. Superato. Archiviato. Nonostante la sua brevità, tema sul quale s’interrogò a lungo lo storico inglese: Eric Hobsbawm. ArcelorMittal non versa da tre mesi il canone d’affitto alla gestione commissariale (circa 25 milioni di euro). Coinvolge l’arbitrato internazionale per intimare Invitalia, cioè lo Stato, a sborsare i 400 milioni di euro come da accordo con il precedente Governo. Un giorno minaccia di chiudere gli impianti e, il giorno dopo, torna sui propri passi affidando la comunicazione interna a scarne veline di mussoliniana memoria. Cosa volete che freghi di Taranto ai franco-indiani. Non hanno un Piano industriale. Non hanno un Piano ambientale. Sono interessati da sempre, sin da quando hanno messo piede per la prima volta da queste parti, ad intestarsi quote di mercato che altrimenti sarebbero finite nelle mani sbagliate. Quelle dei concorrenti, per esempio. Tutto qua. Altro non c’è e mai ci sarà. Se non si vuol finire nella Morselli del ragno è giunta l’ora di compiere uno scatto. Ripensarsi per non morire. C’è vita dopo la siderurgia. Questa siderurgia, poi, fuori tempo massimo. Il Covid – e una certa idea di mondo ormai andato per sempre, non più sostenibile – dovrebbe avercelo insegnato.