Il ricordo dei mondiali '94 dalla periferia di Taranto
Non ce l’ho nitido il ricordo. C’era Baggio, di questo ne sono sicuro. Anzi ce n’erano due, uno alto, faccia spigolosa, cattivo, almeno così mi sembrava, l’altro era Roberto.
Ecco Roberto Baggio, è il primo ciak di un film bellissimo, senza lieto fine però.
Il secondo flash, più terreno, è fatto di catrame. Di aria sudata, di voci, di palazzi volutamente sgargianti e ciminiere. Di televisioni a tubo catodico nei balconi, delle friselle di mia nonna, di bandiere attaccate col nastro alle ringhiere e poi ancora di codini.
Il codino santo Dio, ci penso ancora oggi. Alzi la mano il primo bambino di quei giorni che non avesse sù il codino. Non esiste. E se esiste non era un bambino vero.
Ecco, questo è il mio primo Mondiale. L’abbiamo vinto? No, ma chissenefrega.
Il pallone, non si chiama più così, questi lo chiamano Soccer e i “grandi” che ancora si leccano le ferite che il biondo Caniggia ha intagliato a domicilio sulle pelle di un’intera nazione, guardano con occhio scettico e polemicamente superbo al Mondiale a stelle e strisce.
Sia chiaro, saranno pure i numeri uno, ma vuoi davvero che vengano a dirci come funziona il calcio? Ovviamente avranno ragione loro, i grandi, non gli Yankee.
Sei anni. Puzza la mia periferia, quella dove sono nato e cresciuto.
Perfetta cornice neorealista capace di suscitare sensazioni che a distanza di quasi trent’anni da quei momenti riesco a sentire distintamente addosso, e che ho scelto di custodire manco fossero una decorazione di guerra.
Parto con la digressione: col senno del poi posso dire che c’è una dose di orgoglio triste nell’appartenere a quel luogo. Quartiere Tamburi. C’è tutta la volontà di mostrare come non ci si possa in nessuna maniera slegare dal posto in cui nasci, specialmente se lo fai in un posto come quello. Indiano lontano dalla riserva.
Non è una recensione sulla zona in cui sono nato ed ho vissuto, prendiamola come una rivendicazione pregna di rabbia, specialmente adesso che tutto si esaurisce al solito cliché. Lavoro o salute, tumori e morte. Va bene, vero, però due palle.
Noi oggi parliamo d’altro. Parliamo di sogni, di pallone, di profumi. Ultima cosa, prima di staccare, c’è un sentimento partorito da quell’aristocratica supponenza che mi permette di poter guardare con sufficienza ed un’ immodesta dose di superiorità verso quelli che oggi raccontano il mio quartiere. Loro pontificano, elucubrano, progettano e mentalmente risolvono, la realtà e che del mio quartiere loro non ne sanno un cazzo, io si.
Bene, torniamo a quel Mondiale. Dei mattoni forati con i quali sono ancora fatti quei marciapiedi, del tempo sospeso al 1960, romantico e malinconico contemporaneamente abbiamo già detto. Di diverso c’era l’atmosfera, si perché tutto quello che fino a quel momento avevo assaporato solo vincolato alla mano salda di mio padre, adesso era diverso e mi colpiva e sopratutto mi apparteneva.
Era diverso il caldo, le bandiere appese ai davanzali dei balconi. Volevo anch’io la mia, e la ebbi fino a quando non fu tempo di toglierla. Il come, ma sopratutto il quando non lo decisi io, ci pensarono Baresi, Massaro e quello col solito codino. Parte, giù Taffarel, palla in curva. Grazie a tutti, ci vediamo in Francia.
Naufragato il sogno, confesso che ostinato, mi rifiutai orgogliosamente di ammainare il tricolore ma spiavo incazzato mia madre mentre staccava il nastro dal ferro della ringhiera, “Ci servirà tra quattro anni” – mi disse, non mi convinse e avevo ragione a non fidarmi. Non ci servì nemmeno lì perché poi Di Biagio, vabbè quella di Di Biagio è un’altra storia.
Quel Mondiale per la mia generazione è il gettone che serve a far partire il videogioco, è
la faccia incazzata di Diego Maradona che corre verso la telecamera prima di essere accompagnato mano nella mano, da quella meschina infermiera verso l’ultima scena vera della sua vita. Il resto è contorno e forse se non ci fosse stato sarebbe stato pure meglio. Quel Mondiale per la mia generazione è la parabola che il sogno perfetto non esiste. Che se t’innamori di qualcuno o di qualcosa l’inconveniente è dietro l’angolo, è la conferma che anche il Divino Baggio sa sbagliare i rigori. Quel Mondiale per me e per la mia generazione è stata la porta chiusa per sempre su un calcio ruspante e sdolcinato al contempo, metafora sociale che noi abbiamo imparato a conoscere solo grazie a VHS, Dvd e poi successivamente con Youtube. Quello che ci procura l’urto violento della nostalgia anche se non lo abbiamo mai conosciuto. È stato lo stargate sullo schifo moderno, sulle Pay Tv, sui megasponsor, sul mantra dei social e sui derby alle 12.30 perché il Cina così vogliono.
La linea di demarcazione esiste ed è segnalata dalla voce di Bruno Pizzul. Tutto finisce nel momento in cui Roberto, sempre lui, sistema il pallone e prende la rincorsa. Ecco, in quel momento correte, strappate il telecomando a chiunque ne sia in possesso e poi spegnete la tv. Vi sentirete meglio. E nel frattempo noi siamo ancora là, a distanza di ventott’anni ad aspettare che quel rigore parta e finisca dentro. E prima o poi, lo farà.
Grazie Roberto.